12 febbraio 2006. Gli occhi del mondo degli sport invernali sono puntati
sulla Val di Susa, dove si stanno svolgendo le XX Olimpiadi Invernali.
Io e Marco siamo invece in viaggio ancora una volta per la nostra Val d'Ayas.
Consultate le previsioni del tempo, verificato il livello di innevamento,
valutato il rischio valanghe, abbiamo deciso che il giorno sarebbe stato
propizio per un po' di allenamento. Niente di eccezionale, niente di particolarmente
impegnativo, l'idea è di buttarci verso il lago Lechien e là goderci
la bella giornata di sole e neve.
Entrando nella conca di Ayas lo spettacolo è sempre bellissimo; la
copertura nevosa è a dire il vero assolutamente discontinua fino a
quote inimmaginabili vista la stagione. Praticamente ci sono prati e pietraie
scoperti fino a ben oltre i 3000 metri. Forse si può fare di più...
il Lechien è basso e le giornate si allungano, possiamo osare qualcosa
di meglio! Marco spara "la Falconetta" (nome più confidenziale per
la Becca di Nana, vedi
escursione n. 10);
io, guidando, la guardo, la esamino, e poi mi chiedo... beh, perchè
no? Sarà dura, non siamo allenati, non sappiamo se incontreremo problemi
tipo zone ghiacciate, punti impraticabili e simili, ma ci proviamo. Rotta
su Mandriou.
Parcheggiamo, su gli scarponi, zaino in spalla e in cammino verso la Cà
Zena. La neve da quaggiù sembra davvero poca fino in cima, ci azzardiamo
a lasciare le ciaspole nel portabagagli. La cosa ha immediatamente un risvolto
positivo, la leggerezza dello zaino che ci apprestiamo a trascinare per 1200
metri di dislivello. Scopriremo l'altro lato della medaglia più avanti.

Arriviamo senza problemi alla Cappella Sarteur alle 10.58, raggiungendo e
superando un paio di "colleghi" già prima del Ru Cortot. La zona della
cappella, recentemente restaurata e ri-consacrata, è praticamente
sgombra dalla neve; ci concediamo una brevissima pausa sulle panchine di
fronte alla costruzione. Intanto in cielo si sono formate due lunghe strisce
bianche, orientate est-ovest, perpendicolari al vento, che arriva da nord.
Non ce ne curiamo, ma ci rendiamo conto che filtrando i raggi del sole riducono
anche il calore apportato da questi; comunque chiunque abbia un minimo di
conoscenze di meteorologia si rende conto che non si tratta di nubi da pioggia.
Dopo la partenza dalla cappella superiamo l'alpe Vascoccia e incontriamo
un signore che ci dà per raggiungibile la cima; ci chiede se abbiamo
i ramponi, e ci dice che con quelli non dovremmo avere problemi. Ci dirigiamo
poi verso il pianoro alla base della Falconetta; qui, alle 11.16, abbiamo
la gradita occasione di osservare il volo in dinamica di un grande rapace sopra di noi;
scoprirò in serata, libro alla mano, che si trattava proprio di un'aquila
reale. L'occasione di fotografarla e inserirne l'immagine nella sezione "
fauna" di questo sito non viene sprecata, anche se non dispongo di un teleobbiettivo
a portata di mano. Poco dopo veniamo sorvolati anche da un falco, a pochi
metri di altezza.

La piccola valle in cui stiamo entrando è però ricoperta di
neve, e questo è il lato negativo del non avere le ciaspole. Davanti
a noi c'è un piccolo gruppo di escursionisti con la nostra stessa
meta; alcuni sono fuori percorso, spostati sul lato nord, ma gli altri fortunatamente
ci battono il sentiero. Essendo molto più veloci noi faremo la fesseria
di superarli, per trovarci così ad arrancare nella neve fresca per
un bel tratto, finchè non inizia finalmente la salita, e la neve lascia
posto al prato. Intanto le striature in cielo si sono dissolte; il sole scalda
davvero (o sarà l'effetto della fatica per la camminata nella neve
alta!), e anche se l'aria è gelida non sentiamo freddo, anzi, riusciamo
tranquillamente a procedere senza guanti e berretto.
Dopo la valle affrontiamo e superiamo il lungo traverso in direzione est
che ci porta finalmente in vista della parte orientale del Rosa. Riconosciamo
la Punta Gnifetti, la Capanna Margherita, la Zumstein, la Piramide Vincent.
Il resto del massiccio è ancora nascosto dalla massa della Falconetta.
Seguiamo la traccia di sentiero verso ovest; abbiamo già superato
la quota della cima del Facciabella, raggiungiamo e oltrepassiamo lo Zerbion.
Mai avrei pensato che fosse possibile salire così in alto senza attrezzature
particolari in febbraio!
Giunti a questo punto... mi suona il telefono. Ma chi è che mi chiama mentre sono... impegnato??
Ah, è Massi, che oggi al contrario di molte altre volte non è
con noi. Ci saluta dalla cima del Breithorn occidentale! Dalla nostra posizione
non vediamo ancora la sua, ma possiamo immaginare lo spettacolo che si trova
davanti e soprattutto la temperatura e il vento in cui si trova immerso...
La salita anche per noi è comunque sempre lunghetta, e siamo partiti tardi. Verso
le 13 siamo comunque nel tratto diretto a ovest, sotto la parete della Falconetta.
Poco dopo ci aspetta il punto che, tempo fa, mi aveva spinto a descrivere
questa camminata come pericolosa; si tratta di qualche decina di metri su
terreno friabile, franoso e inclinato verso un pendio piuttosto ripido. Fortunatamente
notiamo che la zona è quasi interamente sgombra dalla neve. Sono
passati diversi anni dall'ultima volta che sono stato su quella cima, e probabilmente
l'esperienza mi porta a vedere diversamente la cosa, perchè non mi
sembra più così critico, questo tratto di sentiero.

Nemmeno negli ultimissimi metri, dove dobbiamo superare una parte ghiacciata.
Superato il costone ci affacciamo sulla Valtournenche, e ci mancano solo poche
decine di metri di salita. La stanchezza, a dire il vero, comincia a farsi
sentire, e più che altro bisogna davvero mettere qualcosa sotto i
denti: il dislivello superato, unito ad alcuni tratti nella neve, lo impone!
Intanto incrociamo tre escursionisti che scendono: sono gli unici arrivati
in cima del gruppo che ci precedeva, gli altri non arriveranno.
Passo dopo passo raggiungiamo finalmente i 3010 metri della cima, con la grande croce metallica
e l'altarino dove ogni anno il 14 agosto viene celebrata una messa.
Ovviamente descrivere il panorama che abbiamo tutto intorno a noi è
difficile. Spuntano tutte le cime più importanti della Valle d'Aosta,
dal Bianco al Rosa e oltre; la valle centrale, invece, è immersa in
una foschia che nasconde tutto ciò che sta al di sotto dei 1000 metri.
Ammiriamo tante delle nostre mete passate e future; sotto di noi ci sono
il Facciabella, raggiunto ancora a fine ottobre, il Vallone di Nana con il
rifugio Grand Tournalin, puntino nero immerso nel bianco della neve, e la
conca dei Laghi Croce. A nord osserviamo il Bec Trecare, che rappresenta
sicuramente una cima su cui tornare, perchè Marco ancora non c'è
stato, e poi i due Tournalin, ancora tutti da studiare. Il Palon di Resy
è una montagnola insignificante, eppure siamo stati contenti di raggiungerlo
in invernale qualche settimana prima! E poi il Testa Grigia, su cui non vedo
l'ora di tornare, il Corno Bussola, che ancora mi manca, e l'intramontabile
Zerbion, che ormai praticamente non ha più segreti. Il Tantanè
è un'altra cima da scoprire.

Intanto Marco, utilizzando l'altare come piano d'appoggio, ha preparato i
panini come da tradizione. Mangio i miei senza togliermi i guanti, perchè
l'aria è davvero gelida, e soprattutto senza stare fermo, continuando
a girare intorno alla croce per non raffreddarmi troppo. Mi rendo conto che
maneggiare un panino in quel modo è quasi impossibile, ma so che togliere
i guanti per il tempo necessario a finire sarebbe più che sufficiente
a farmi congelare le mani.
Il tempo passa, e sono quasi le 15 quando ci rendiamo conto che è
davvero ora di iniziare la discesa. Mi allontano dalla croce per andare a
scattare una serie di foto, tolgo i guanti, faccio quello che devo e li rimetto,
tutto nel giro di un minuto scarso, ma è sufficiente: le dita mi si
sono già congelate. Sarò io che sono particolarmente sensibile
alla cosa, sarà che il sole nasconde la vera temperatura dell'aria
e non abbiamo un termometro, ma il dolore che provo per tutta la fase del
riscaldamento è insopportabile. A riprendersi per ultimi, con un bel
formicolio che indica che la circolazione è ripresa, sono i pollici,
quando già abbiamo salutato la cima e ci siamo rimessi in cammino.
Il sole è ancora abbastanza alto, e rende la discesa piacevole, contribuendo
a cancellare il cattivo, pessimo ricordo che avevo di questa cima, dovuto
soprattutto ai dolorosi problemi a un ginocchio che al tempo avevano reso
un calvario il ritorno a valle. Anche questa volta in realtà non sono
in sesto al 100%; un dolorino all'interno del ginocchio sinistro non manca,
ma è comparso in salita e so per esperienza che non peggiorerà
in discesa.
A peggiorare in realtà è il tempo. Il cielo non è più
limpido come poche ore prima; su di noi splende il sole, ma tutto intorno
si stanno addensando nubi grigie sempre più basse. Prima che scompaia
alla nostra vista dietro la cresta, la cima del Monte Bianco è già
coperta dalle nuvole, e anche in pianura sembra che le condimeteo vadano
peggiorando.

Anche questa volta non ci preoccupiamo, comunque; si tratta in buona parte
di nubi stratificate che non porteranno sicuramente precipitazioni. Gli aghi
di ghiaccio in sospensione ad alta quota ci regalano piuttosto lo spettacolo
di un piccolo arcobaleno nel cielo dietro la cresta del Colle Portola (foto
a sinisttra).
Siamo ormai tornati a Mandriou quando inizia a farsi buio, ma la giornata
è finita ed è stata splendida, con una bella camminata e un'altra
cima raggiunta da mettere nell'album delle cose fatte al di fuori di quella
che è la stagione a noi più familiare, l'estate.
Il tempo stringe, come sempre, perchè Marco ha il solito appuntamento
con il treno a Santhià, e il traffico potrebbe darci qualche problema.
Troveremo infatti coda tra Verres e Quincinetto, e poi nei pressi dello svincolo
di Santhià, e Marco arriverà in stazione con pochi minuti di
anticipo.
La giornata verrà per molti ricordata come quella in cui l'Italia
ha conquistato la prima medaglia d'oro alle Olimpiadi (nello slittino), ma
nel nostro piccolo e modesto mondo pensiamo che tutto sommato la nostra medaglia
d'oro ce la siamo meritata anche noi!